Il nome è un marchio, è ciò che contraddistingue un
individuo, la sua persona, a volte la stirpe di appartenenza e perfino il suo
status civile e sociale. Se vogliamo, quindi, il nome è un marchio che viene
imposto dal contesto familiare al nascituro e ne condiziona inevitabilmente l’essere,
ma non è detto che lo rispecchi. Chi non ama o non accetta il suo nome, se ne
sceglie un altro, il “nome d’arte”, che a volte è un semplice diminutivo od un
nome affine che sostituisca nel 90% dei casi la “Zopponta”, ossia il nome del
nonno o della nonna che viene imposto in ossequio ad una forma di rispetto
tanto desueta quanto fondamentalmente incomprensibile. Ecco allora spuntare dei
melodiosi Assia o Sissy in sostituzione del meno musicale Assunta, oppure degli
impropri Lello in luogo di Catello e degli azzardati Melania in luogo di
Carmela. Ma nemmeno i nomi autoimposti alla fine rispecchiano per bene chi li
porta. A Napoli, si sa, piace dire le cose in modo papale, perciò ognuno o
quasi porta con sé un altro nome, che è quello che la gente impone ed è l’unico
che rispecchia la verità, ossia ‘o contranome. Riferito alla professione, ad un
difetto di pronuncia o ad un tic particolare, il contranome è meglio della
carta d’identità per il cittadino, il vero ed unico nome che il popolo
riconosce e, a suo modo, la nuda verità su chi lo porta. Il contranome è una
vera e propria opera d’arte, una summa di poesia, una raro e limpido esempio di
pregnanza ficcante e sagace, che va diretta al dunque e rende unico ed
inconfondibile chi lo porta.
Il contranome per eccellenza nasce da osservazioni acute e
pungenti sulle caratteristiche fisiche della persona, ma non si ferma alla
banalità obesa di un “‘o chiattone”, lo trasforma con una pennellata in “‘a
muntagna”, lo trasfigura in un “‘o bufalo” o lo immortala in un definitivo
“panza ‘e vacca”. E di lui, ne vogliamo parlare? Lui ha una cicatrice
abbastanza vistosa in fronte, ricordo giovanile di una bottigliata ricevuta
durante un derby disputato col palazzo di fronte a Piazza del Plebiscito, ma
chi lo conosce non si accontenta del troppo telefonato “‘o sfregiato”,
arrivando a coniare “‘o ‘ntaccato”e perfino “‘a zip”, con un fenomenale
riferimento ad una chiusura lampo in zona temporale.
A volte il contranome assume una valenza proto-futurista e
tenta di fermare il tempo e lo spazio in una sola espressione, dipingendo in
essa come in un quadro le sembianze del malcapitato. Pensate allora ad un uomo
dalla camminata claudicante, e lo riconoscerete in un mirabile “punto e
virgola”, ad un individuo noto per il suo vestiario bohémienne, eternato in un
esplicito “pezzacculo”, ad un giovane dal labbro possente, dipinto con il
diretto “musso ‘e puorco” e ad un anziano dalle orecchie prominenti,
fotografato in un fantasioso “recchia a provola”.
Infinite sono le immagini utilizzate per dileggiare chi non
brilla per intuito o sagacia. Ecco allora proliferare i vari “Piscione”,
“Baccalà” e “Bacchettone”, fino a spingersi a sottilissime metafore quali
“Bullone” per indicare uno svitato e “Balcone”, per catalogare uno che non c’è tanto
in tema di materia grigia, senza contare i “Pisciaturo” e “Pesce in burro” , il
cui uso può divenire multiforme.
Passando al sesso femminile, di solito si tende a
sottolineare la poca piacenza di una donna con dei “Brigibbardò” e dei
“Liztailòr”, mentre non mancano riferimenti al proprio stato civile, che spesso
si riferiscono ad avvenimenti ormai lontanissimi nel tempo. Ecco allora
spuntare i vari “Sposi” e “Spose”, anche a 35 anni dal matrimonio, mentre non
di rado diventa “Dottore” o “Poeta” chiunque ostenti un minimo di istruzione
Arrendetevi dunque, potrete cercare di imporre il vostro
nome reale o d’arte a chiunque, ma nessuno potrà salvarvi dal nome che vi
cuciranno addosso gli altri. Attenzione, però: se dovessero chiamarvi “Pascià”
o “Raubbova”, non gasatevi troppo: non scordate che siamo a Napoli,
verosimilmente vi staranno prendendo per il deretano…..
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